Kolymbetra

Continuando la nostra visita nella Valle dei Templi di Agrigento, arriviamo all’area sacra che occupa l’estremità occidentale del terrazzo che si affaccia sulla Kolymbetra. Da tale area, in uso già dalla fine del VI secolo a.C., proviene una famosa testina modellata a mano di divinità con alto polos di fabbrica rodia o cretese della fine del VII secolo a.C., interpretata quale reliquia portata dai coloni geloi al momento della fondazione della città.

Ricordiamo che, anche se con riti molto più semplici rispetto al mondo etrusco e romano, laa fondazione di una colonia, anche presso i greci aveva carattere sacro; prima della partenza, gli ecisti, i capi dei coloni, erano soliti consultare un oracolo, spesso quello di Apollo a Delfi, oppure quello di Dodona, per scrutare la sorte del viaggio da intraprendere e sapere quale fosse il luogo di destinazione assegnato dalla divinità. Ovviamente, i sacerdoti di questi santuari, grazie al continuo afflusso dei pellegrini, avevano idee molto più chiare, rispetto ai coloni, della geografia e del contesto politico dei luoghi in si aveva intenzione di fondare una colonia e quindi potevano dare consigli sensati

Dopo la consultazione dell’oracolo, era il momento dell’organizzazione del viaggio: navi, armi, provviste di cibo, arnesi da lavoro. Sulle navi venivano portati anche i simboli delle divinità della madrepatria, come la testina ritrovata ad Agrigento. Tra i fondatori dovevano essere presenti anche gli agrimensori, per ripartire equamente le nuove terre.

Prima della partenza, quando tutto era stato predisposto, i futuri coloni si recavano sull’acropoli per i riti sacrificali, e il sacerdote della spedizione si recava al pritaneo, ossia il centro spirituale della città, dove si trovava l’altare di Hestia, e lì attingeva il fuoco sacro dal focolare della dea. Il fuoco veniva conservato con tutte le cure durante il viaggio e veniva poi depositato entro il pritaneo della nuova città, a testimoniare una sorta di filiazione sacra

Arrivati sul luogo da colonizzare, l’ecista e i suoi compagni fondavano la nuova polis, compiendo l’azione che in greco antico era chiamata ktisis, ossia “fondazione”, delimitando con un solco lo spazio della città, di un’estensione superiore ai bisogni immediati, ma in vista dell’espansione della colonia. L’ecista divideva poi le terre tra i coloni e separava lo spazio urbano in privato, pubblico (l’agorà) e sacro: (l’acropoli e i templi). A. Aveva anche il dovere di mantenere le usanze della madre patria (o “metropoli”). Dopo la morte, a volte veniva venerato come un eroe

Del santuario, legato quindi ai riti di fondazione si colgono sul terreno alcuni resti di difficile lettura pertinenti alla fase arcaica (oikos o recinto all’angolo nord occidentale e donari dei quali rimangono solo i tagli nella roccia) e alla successiva, ascrivibile alla prima metà del IV secolo a.C. (ampliamento dell’oikos arcaico,trasformato in un sacello a due ambienti; edicola aperta ad est). Spingendosi sul ciglio settentrionale di questo settore della collina, lungo il quale corre la linea delle fortificazioni (conservata a tratti) si giunge finalmente alla Kolymbetra.

La fonte storica più attendibile sulla Kolymbethra è Diodoro Siculo. Nei libri XI e XIII della Bibliotheca Historica, lo storico racconta come il tiranno Terone commissionasse all’architetto Feace la progettazione di un sistema idrico per l’antica città di Agrigento. Utilizzando gli schiavi cartaginesi catturati nella battaglia di Himera, Feace fece realizzare un insieme di ipogei, gallerie artificiali con la funzione di raccogliere le acque che trasudavano da un tipo di roccia porosa, la calcarenite, e di convogliarle, tramite un sistema di cunicoli, dalla collina verso il bacino della Kolymbetra, il cui nome significa in greco piscina.

Uno di questi ipogei, lungo circa 185 metri, con un dislivello di circa 11 metri, è stato recentemente riaperto al pubblico: il suo percorso, facilmente percorribile, è intervallato da due pozzi verticali, uno nei pressi della biglietteria della Kolymbetra (da cui possibile entrare e uscire); ed un secondo sul pianoro calcarenitico su cui è stato edificato il Tempio dei Dioscuri, costituito da un pozzo verticale a sezione rettangolare e profondo circa 10 metri.

Tornando al bacino della Kolymbetra così lo descrive Diodoro Siculo

una grande vasca…del perimetro di sette stadi… profonda venti braccia… dove sboccavano gli Acquedotti Feaci, vivaio di ricercata flora e abbondante fauna selvatica…

Il giardino, oltre ad essere un luogo di villeggiatura per i tiranni akragantini, era anche un luogo d’incontro per tutti gli abitanti della città: qui si ritrovavano, infatti, le donne per lavare i panni e chiunque volesse rinfrescarsi tra le acque limpide della piscina.

Un secolo dopo la Battaglia di Himera, lo stesso Diodoro Siculo afferma che la vasca fu interrata e trasformata in orto, diventando così una ricca area coltivabile. La presenza degli ipogei, la cui funzione originaria venne adattata all’uso agricolo, risultò fondamentale; l’acqua convogliata da questi acquedotti, infatti, alimentava una piccola vasca o “gebbia”[, situata accanto allo sbocco di un ipogeo, che serviva per irrigare il giardino. Questo sistema funziona ancora oggi, mantenendo coltivabile il terreno. Intorno al 1100 d.C., il Giardino venne trasformato in un canneto, dove veniva coltivata la canna da zucchero.

Tommaso Fazello, storico e frate domenicano, racconta che, intorno al XVI secolo, il Giardino della Kolymbethra diventò un horti abatiae, ovvero l’orto del vicino convento della Badia Bassa. Successivamente, tra il Settecento e l’Ottocento, quando in Sicilia si diffuse la coltivazione degli alberi da frutto, divenne un giardino di agrumi.Nel 1999 la Regione Siciliana lo affidò al FAI in concessione gratuita per un periodo di 25 anni, ponendo fine alla situazione di degrado venutasi a creare dagli ultimi decenni del Novecento.

Oggi, all’ombra delle “gebbie”, le vasche che raccolgono l’acqua proveniente dagli acquedotti Feaci, crescono specie tropicali come il banano. Tipica è la macchia mediterranea, mirto, lentisco, euforbia e ginestra. A fondo valle, bordato da canne, salici e pioppi bianchi, si estende l’agrumeto che conta ben undici differenti qualità di agrumi, irrigato secondo le tecniche di tradizione araba, recentemente ripristinate. Rappresenta il 29% del terreno ed è costituito da aranci amari, mandarini, limoni, pompelmi, clementini e da diverse varietà di aranci dolci, come ad esempio il Portogallo, il Tarocco, il Brasiliano, il Vaniglia, il Vaniglia-rosa e varianti ancora più rare, come la Navel di Ribera e la Rossa dell’Etna. Dove il terreno è più arido crescono gelsi, carrubi, fichi d’India, mandorli e giganteschi ulivi. Stupisce un ulivo di 6,30 metri di circonferenza: età stimata tra gli ottocento e mille anni.

In lontananza, oltre la Kolymbethra, sul terrazzo occidentale della collina dei templi, si possono osservare i resti superstiti del tempio di Vulcano, di cui parlerò in futuro. Spostandosi sul margine meridionale si segua il costone roccioso sino all’area sacra ubicata ad Est di Porta V. Una singolare e interessante veduta delle fortificazioni (e dei relativi crolli), si coglie affacciandosi sul ciglio della collina. All’esterno e a ridosso della cortina muraria, in corrispondenza del santuario delle divinità ctonie, erano ubicate le officine dei coroplasti specializzati nella produzione di terracotte votive destinate alle offerte nei santuari.

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